Vite mie by Yari Selvetella

Vite mie by Yari Selvetella

autore:Yari Selvetella [Selvetella, Yari]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 2022-09-05T12:00:00+00:00


Un ago

Rovisto tra foulard e golfini, ci sono le sue vecchie Converse color sabbia, senza lacci. Con queste G. ha impresso, sul primo strato del mondo, il suo peso così lieve. Ha sporcato i pavimenti con la sua impronta in quasi tutti i continenti, perché non sapeva starsi ferma, doveva sempre viaggiare, sognare di muoversi, traslocare. Afferro una scarpa, la esamino. È una bocca vuota, penso; mi sento come se mi avessero appena estratto un dente, narcotizzato e quasi attratto dalla nuova cavità. Sa di collutorio e di sangue, la lingua non è capace di tastarlo, il labbro è ancora insensibile. Mi ritraggo, lascio le scarpe dove sono. Mettendo via la destra mi cade in mano un sacchettino di pelle chiuso da un nastro di cuoio. Lo usavamo in vacanza per non smarrire gli effetti personali più utili o preziosi, le chiavi di casa, qualche ninnolo d’argento. Sagace da parte mia averlo riposto in una di queste scarpe, suggerendo al me di oggi il suo utilizzo da viaggio, nel caso l’avessi scordato. Invece lo so ancora bene, lo stringo tra le mani ed è piacevole come allora, non si è incartapecorito né screpolato, è rimasto morbido: la guazza che ha compromesso le altre cose ha salvato il sacchetto. Lo apro con qualche aspettativa ma dentro c’è solo un kit portatile da cucito, con un rocchetto di cartone attorno al quale è avvolta una treccia di fili multicolori, fermati da un paio di aghi appuntati e da una spilla da balia. La bustina di nylon in cui è chiuso l’aggeggio si scolla quando la tocco e mi resta in mano un ago. Un ago: ecco tutto. Una minuscola asticciola d’acciaio, un corpo liscio, un occhio. Riesco agilmente a guardarci attraverso come facevo con mia nonna materna, che era sarta. Mi passava ago e filo e io zac, in un battibaleno glieli porgevo indietro già assemblati, tutto soddisfatto. Ora, se ci riprovo, me lo impediscono i primi accenni di presbiopia. Ma non stamattina: ogni cosa è limpida, nella cruna.

Quando muore una persona giovane il lutto è una montagna aperta: il ferro, la magnetite, è tutto a vista, tutto riluce; pesa e splende quel che l’apparenza non può trattenere, la cava è a ingresso libero, le gallerie sono agibili e conducono dritte al buio profondissimo.

Poi s’alza il vento, bisogna provare a vivere. L’aria graffia le cime, solleva i pulviscoli, smuove le limature, vela, progressivamente colma, senza sfoggio di tenacia ma con costanza prosegue la sua azione, erode.

Ai più basta: quando le colline si assomigliano tutte, quando ginestre e ferule tornano a lampeggiare, ben concimate, sazie di pioggia, a ricoprire le forre, a suturare i fondi con uno strato omogeneo di colore, solo i malinconici restano capaci di intuire le forme che furono, le città dirute in cui si aggirarono i dolenti, lo strazio dei primi giorni. Non è vero oblio ma cicatrice, una geometria che esternamente pare fantasiosa ma invece è una mappa precisissima. Il corpo che la possiede sa anche leggerla. È memoria: il male che fa è ricordo del male.



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